La concreta attuazione della legge sulla rappresentanza di genere a tre anni dalla sua entrata in vigore
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere n. 93 del 19 gennaio 2015)
Il Consiglio di Stato con il parere in commento ha sciolto alcuni dubbi interpretativi avanzati dal Ministero dell’Interno sulla concreta attuazione della L. n. 215 del 2012, volta a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli Enti locali e nei Consigli regionali, ed il rispetto delle pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorsi nella pubblica amministrazione.
In particolare, l’art. 6 del Testo Unico e degli Enti Locali, così come novellato dall’art. 1 della L. 215 del 2012, dispone che negli statuti comunali e provinciali siano presenti delle norme volte a garantire condizioni di pari opportunità tra uomo e donna, e la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del Comune e della Provincia, concedendo all’uopo un termine di 6 mesi dall’entrata in vigore della suddetta legge per gli adeguamenti di rito.
La stessa L. 215 adotta inoltre ulteriori disposizioni tese alla realizzazione di tali obbiettivi, al fine di garantire la presenza di “quote rosa” nelle cariche elettive e nelle liste dei candidati, inserendosi così nell’assetto normativo già delineato dall’art. 51 della Costituzione, dal Codice delle pari opportunità (d.lgs. 198 del 2006) e dall’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea.
I quesiti esposti riflettono alcune incertezze applicative in ordine alle misure da adottare, sia nei confronti degli enti che non abbiano ancora uniformato gli statuti ed i regolamenti alla normativa dettata dall’art. 6 del TUEL, sia riguardo alle delibere adottate da organi composti da soli uomini (in particolare se le stesse siano per ciò illegittime). Altri quesiti riguardavano invece l’applicabilità della legge anche alle Amministrazioni in corso di consiliatura, elette prima dell’entrata in vigore della suddetta norma; l’eventuale obbligo per gli enti locali di indicare negli statuti una percentuale minima per garantire la rappresentanza di genere; ed infine la previsione di particolari procedure che il sindaco deve attuare per dimostrare che, nonostante abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire l’applicazione del principio di pari opportunità tra uomo e donna, non sia riuscito a raggiungere tale obiettivo e abbia dovuto nominare tutti assessori di sesso maschile.
I Giudici, hanno ritenuto che, in difetto di strumenti utili a dare concreta attuazione alle norme sul riequilibrio delle quote di genere, si debba fare riferimento in via integrativa alle disposizioni previste nell’ordinamento vigente. In particolare, l’art. 120 della Cost., riconosce in capo al Governo l’esercizio di poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di “…mancato rispetto … della normativa comunitaria … ovvero quando lo richiedono … la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governo locali”. I Giudici hanno ritenuto che, l’osservanza della parità di genere attiene senza dubbio alla “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali”. Sulla scorta di tale norma, la promozione delle pari opportunità, secondo il Collegio giudicante, non deve essere demandata soltanto al Legislatore, ma deve coinvolgere tutti i pubblici poteri, riconoscendo nel merito un ruolo attivo, sia al Legislatore, il quale deve dare attuazione e specificazione al principio di eguaglianza tra uomo e donna nell’accesso alle cariche elettive, sia ai pubblici poteri, i quali sono tenuti ad osservare il principio dell’eguaglianza tra i sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art.51 Cost.), ed il principio della parità tra uomo e donna in tutti campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione (art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) anche nell’adozione dei provvedimenti amministrativi.
In tale contesto interpretativo “sarebbe fuorviante concludere che il termine di sei mesi previsto per l’adeguamento dello statuto non abbia alcun rilievo, in quanto per la sua inosservanza il legislatore non ha previsto una specifica sanzione”. Vertendosi in materia di riconoscimento di diritti costituzionali fondamentali, il superamento del termine di sei mesi rappresenta una violazione di principi costituzionali” che determina una situazione di grave antigiuridicità, legittimante il ricorso a poteri sostitutivi e di annullamento previsti e disciplinati dagli artt. 136, 137 e 138 del TUEL.
Sarà quindi onere delle Regioni, diffidare i Comuni ad adeguare gli statuti entro un termine ragionevole (90 giorni),e, in situazioni di inerzia, il Comitato regionale di controllo (art. 136) nominerà un commissario ad acta per l’esercizio dei poteri sostitutivi che provvederà all’adeguamento. Mentre, in caso di inattività delle Regioni agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, il Consiglio dei Ministri (art. 137) nominerà un commissario ad acta per l’assolvimento di tali incombenti.
Per quanto concerne invece la validità delle deliberazioni assunte, i Giudici hanno ritenuto che l’atto adottato dall’organo non regolarmente costituito, mentre sia pendente ricorso, sia valido ed efficace, ciò nel rispetto del principio di continuità degli organi amministrativi in virtù del quale, fino al deposito della sentenza che ne accerti l’illegittima composizione l’organo in carica si considera validamente costituito. Nel caso in cui l’irregolarità invece non sia stata impugnata nei termini, l’atto adottato da tale organo è divenuto inoppugnabile e definitivo in virtù dei principi di legalità e di stabilità dell’azione amministrativa che determinano l’agere dei poteri pubblici.
Le disposizioni della L. 215 inoltre si applicano soltanto all’atto del rinnovo della consiliatura o nel caso di dimissioni o di surrogazione di un membro della giunta in ossequio ai principi di ragionevolezza e di buona amministrazione (quesito n.3) e le stesse non prescrivono una ripartizione percentuale precisa per riequilibrare il rapporto numerico tra i due sessi (quesito n.4). Il Legislatore quindi, a garanzia della rappresentanza di genere, non ha preventivamente standardizzato dei precisi ed uniformi criteri numerici e quantitativi per la composizione delle giunte, lasciando sul punto ampi spazi di discrezionalità che conseguono all’autonomia ordinamentale, e che devono essere compatibili con le dimensioni della realtà amministrativa considerata. Ciò entro i limiti tracciati dai principi di natura giuridica posti dall’ordinamento a livello costituzionale e legislativo. I Giudici hanno altresì precisato che equilibrio di genere non significa parità di presenze maschili e femminili, quanto piuttosto evitare l’irragionevole preponderanza di un sesso rispetto all’altro, secondo un criterio già ampiamente espresso dalla giurisprudenza amministrativa citata dalla stessa Amministrazione. Soluzioni tassative al riguardo sono di competenza del legislatore, che tuttavia sia nel decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell’art. 7 della legge 28 novembre 2005, n. 2469), sia nella legge n. 215 del 2012, è sembrato privilegiare soluzioni ispirate a ragionevolezza e progressività.
Quanto all’ultimo quesito in ordine alle eventuali procedure che il sindaco debba attuare per dimostrare di aver adottato tutti i mezzi a sua disposizione per adempiere i precetti enunciati dalla l. 215, il Collegio giudicante ha affermato che la dimostrazione di aver svolto preventivamente a tale attività un’indagine tesa all’individuazione di soggetti di entrambi i sessi disponibili ad assolvere l’incarico di assessore, unitamente ad un’adeguate motivazione della mancata applicazione del principio delle pari opportunità costituiscono elementi idonei a comprovare il rispetto del precetto di cui all’art. 51 Cost. nella procedura di nominata della giunta.