Autonomia statutaria e potestà regolamentare degli Enti locali. Le conseguenze prodotte dalla riforma costituzionale del Titolo V, un vero e proprio capovolgimento istituzionale.
Non vi è dubbio che la riforma costituzionale del Titolo V abbia determinato immediate e significative conseguenze sull’autonomia degli enti locali. Per la prima volta la Carta costituzionale riconosce espressamente la potestà normativa di Comuni e Province, attribuendo a questi ultimi, nell’ambito degli ormai noti principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, un ruolo prioritario sul piano istituzionale.
Capovolgimento istituzionale
A tal proposito appare di fondamentale rilievo la disposizione contenuta nell’articolo 114 la quale, dopo aver operato un’equiparazione formale dello Stato con gli enti locali, in un ‘capovolgimento’ istituzionale che conduce dal modello piramidale della concezione statalista verso quello fondato sulle realtà istituzionali più vicine ai cittadini amministrati, riconosce l’autonomia dei singoli enti territoriali assegnando valore specifico alla potestà statutaria. Il riconoscimento costituzionale operato dall’articolo 114 Cost. preserverebbe la fonte statutaria locale da qualsiasi intervento modificativo o abrogativo ad opera del legislatore. Di tal che gli statuti di comuni e province, essendo soggetti ai soli principi fissati dalla Costituzione, assumerebbero quella particolare posizione nelle gerarchia delle fonti che la prevalente dottrina aveva già loro attribuita nell’impianto normativo del Testo Unico 18 agosto 2000 n. 267 (la legge generale della repubblica abilitata a definire principi e funzioni per i Comuni e le Province secondo la formulazione dell’articolo 128 della Costituzione, ora abrogato). Allo statuto locale veniva riconosciuto, invero, il ruolo di ‘fonte sub primaria’, collocata al di sotto della legge e al di sopra delle fonti generali, dotata della forza di derogare a qualsiasi norma di legge purché non qualificata quale norma di principio. Più propriamente, alla luce dell’atipicità della fonte statutaria, si consentiva agli statuti, attraverso il ricorso del principio di competenza e l’abbandono del criterio dell’ordine gerarchico, di estrinsecare la potestà normativa loro propria in una sfera diversa e ridotta rispetto a quella legislativa. A tal riguardo la Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza n. 12868 del 16 giugno 2005, ha qualificato, lo statuto locale, nell’ambito del nuovo quadro istituzionale, come atto formalmente amministrativo ma sostanzialmente come atto atipico, con caratteristiche specifiche, di rango paraprimario o sub primario posto in posizione di supremazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto dirette a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e a porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi in sede regolamentare, con la conseguenza che risulta accentuata l’immanenza della potestà statutaria al principio di autonomia sancito dall’articolo 5 Cost. e la configurazione dello statuto come espressione della esistenza stessa e della identità dell’ordinamento giuridico locale.
Revisione costituzionale
Sotto questi aspetti, la legge di revisione costituzionale rappresenta, indubitabilmente, il punto di approdo di un percorso evolutivo dell’assetto delle autonomie già avviato, a livello di formazione primaria, dalla legge 8 giugno 1990 n.142, ove lo statuto costituisce il più importante strumento fornito alle comunità locali per esprimere esigenze ordinamentali che non possono trovare posizione in altri livelli normativi (quali quello statale e regionale). L’articolo 4, comma 1, della legge 5 giugno 2003 n.131 (cosiddetta legge ‘La Loggia’), nata per dare concreta attuazione alla riforma, ribadisce il portato della norma costituzionale affermando che comuni, province e città metropolitane hanno potestà normativa secondo i principi stabiliti dalla Costituzione e specificando che tale potestà consiste in quella statutaria e, altresì, in quella regolamentare. Ciò in piena coerenza con il sesto comma del nuovo articolo 117, che riserva, infatti, agli enti territoriali la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. In tale contesto assume rilievo anche la legislazione regionale oltre che quella statale, entrambe tenute ad assicurare, sussistendo la riserva di regolamento per la disciplina di dettaglio, ‘i requisiti minimi di uniformità’. Sul punto è intervenuta, seppur incidentalmente, la Corte Costituzionale nella sentenza n.256 del 21 giugno 2006 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo prevedere regolamenti regionali cedevoli (o suppletivi) in materia di competenza del regolamento locale. Nella pronuncia de qua si legge: se il legislatore regionale nell’ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, non può contestualmente pretendere di affidare a un organo della regione – neppure in via suppletiva – la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto loro attribuito dalla legge regionale medesima. Nei limiti, infatti, delle funzioni attribuite dalla legge regionale agli enti locali, solo questi ultimi possono – articolo 117 comma VI- adottare i relativi regolamenti relativi all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione’. Con la riforma costituzionale è stata, dunque, operata una scelta legislativa di estrema importanza che preclude al legislatore ordinario ogni possibilità di retrocedere rispetto alla volontà di attribuire agli enti locali una forte potestà normativa in quanto solo il legislatore costituente potrebbe ‘rivedere’l’assetto istituzionale e normativo ridisegnato dalla legge di revisione costituzionale. Trascurando l’ampio dibattito in corso relativamente all’ampiezza e ai limiti della materia oggetto di tale potestà, debbono farsi alcune considerazioni. La potestà normativa – in primis statutaria, poi quella regolamentare – è attribuita ai comuni direttamente dalla Costituzione e non è soggetta a ulteriori limiti (rispetto a quelli espressamente previsti dalla carta costituzionale medesima) che derivino da leggi statali e regionali che siano. Gli enti territoriali dovranno, dunque, saper sfruttare in maniera ottimale gli ampi spazi lasciati aperti dalla riforma per cogliere tutte le opportunità di sviluppo e di crescita sul piano sia istituzionale sia economico e sociale. Appare, ovviamente, in linea con l’autonomia originaria riconosciuta ai comuni dal summenzionato articolo 114, comma 2, Cost., la disposizione di cui all’articolo 2 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 ai sensi della quale i Comuni disciplinano l’attività edilizia nell’esercizio della propria autonomia statutaria e normativa ai sensi del d.lgs. 18 agosto 2000 n.267 (comma 4).
Avv. Bruno Bianchi, Presidente della Fondazione “de Iure Publico”