Nota Cassazione n. 39049 depositata il 23 settembre 2013
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha esaminato il ricorso contro la pronuncia della Corte d’Appello di Genova con la quale i due imputati, l’uno esecutore dei lavori l’altro direttore, erano stati condannati per i reati di cui all’art. 44 lett. c, D.P.R. 380/2001, per aver eseguito delle opere in variazione essenziale rispetto al progetto, e 181 comma 1-bis del D.Lvo 42/04, per aver realizzato tali opere in zona soggetta a vincolo paesaggistico senza aver ottenuto l’autorizzazione all’uopo necessaria.
Gli imputati proposero ricorso avverso tale giudicato adducendo l’irrilevanza penale del fatto contestato data la presenza di una causa scriminante del reato, rappresentata dal certificato di compatibilità paesaggistica, successivamente ottenuta ed attestante l’insussistenza del danno paesaggistico.
Per quanto riguarda la contestazione del reato edilizio il Supremo Collegio ha evidenziato come, secondo un orientamento ormai consolidato della Giurisprudenza, in materia urbanistica si distingue tra “varianti in senso proprio” e varianti essenziali.
Le prime consistono in modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire. (Cass. 24236/2010 e Cass. 9922/2009).
Le variazioni essenziali disciplinate dall’art. 32 del DPR 380/2001 sono invece caratterizzate da “incompatibilità qualitativa e quantitativa rispetto al progetto edificatorio originario e, in quanto tali, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante” (Cass. 24236/2010).
La variante essenziale rispetto alla concessione edilizia si ha quando le modifiche al progetto assentito concernono la sagoma, la superficie coperta, la struttura interna e la destinazione d’uso del manufatto e si tratta di una tipologia di abuso intermedia tra la difformità totale e quella parziale sanzionata dall’art. 44 lett. a) del DPR 380/2001 (Cass. 41167/2012).
La Corte di Cassazione con la sentenza N° 16392 del 2010 ha affermato che nel caso di interventi realizzati in aree sottoposte a tutela ambientale “ai fini della loro qualificazione giuridica e dell’individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l’art. 32, comma 3, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali”.
Nel caso specifico, data la natura e l’entità delle opere eseguite, la Suprema Corte ha qualificato tali interventi come “variazioni essenziali”.
In merito al reato ambientale, la difesa ricorrente ritiene che le alterazioni plano-volumetriche riscontrate costituirebbero invece degli interventi di “lieve entità” ai sensi dell’art. 44 della L. 35/2012 come tali non sanzionabili. Secondo parte ricorrente il Legislatore, con l’introduzione dell’art. 44, avrebbe esteso agli interventi di lieve entità le ipotesi di non punibilità della condotta, nel caso di accertata compatibilità paesaggistica, disciplinati dall’art. 181 comma 1 ter finora valutate secondo il criterio di origine Giurisprudenziale della “minore entità dell’intervento”.
Il delitto paesaggistico previsto dall’art. 181 del d. lgs. 42/2004 costituisce un reato di pericolo astratto la cui offensività consiste nell’attitudine dell’opera, alla stregua di una valutazione ex ante di porre in pericolo il bene protetto (Cass. 14461/2003).
La disciplinata dettata da tale disposizione è diretta a tutelare l’ambiente e, in modo strumentale e mediato, l’interesse della pubblica amministrazione al controllo preventivo di ogni intervento intrinsecamente idoneo a comportare modificazioni ambientali e paesaggistiche, in quanto, attraverso tali adempimenti formali, la Pubblica Amministrazione avrà a disposizione le informazioni necessarie per valutare l’impatto sul paesaggio di tali opere (Cass. 26139/2005; Cass. 23980/2004; Cass. 14461/2003).
La fattispecie di cui all’art. 181 si configura indipendentemente dalla realizzazione di un effettivo pregiudizio per l’ambiente, a prescindere da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio.
Il reato de quo si consuma con la sola realizzazione di lavori in zone vincolate, senza la preventiva autorizzazione, potenzialmente lesivi del bene giuridico tutelato (Cass. 6299/2013; Cass. 564/2005).
Tale reato non è ravvisabile negli interventi di minima entità inidonei a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale.
La Corte rigetta il ricorso affermando che: “Tale tesi, poggiante su una classificazione o indicazione degli interventi di lieve entità ancora da venire (e dunque non certamente applicabile rebus sic stantibus), non significa però l’abbandono del concetto di minima entità, proprio perché manca qualsiasi riferimento normativo specifico atto a definire la categoria di nuovo conio”.
Secondo il Supremo Collegio quindi il concetto di matrice Giurisprudenziale di “interventi di minima entità” è attualmente l’unico criterio di riferimento per qualificare le ipotesi di totale irrilevanza, come tali non punibili e quelle invece penalmente rilevanti.